È un mondo del lavoro torinese sempre più polarizzato quello che emerge dai primi risultati della ricerca Una classe che vive di lavoro, curata dalla Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci in collaborazione con la Camera del lavoro di Torino: al centro dell’indagine ci sono le trasformazioni del lavoro, le disuguaglianze retributive e le conseguenti rappresentazioni culturali e sociali delle lavoratrici e dei lavoratori di Torino e del Piemonte.
La Fondazione Gramsci ha inteso, con questa ricerca, offrire al dibattito pubblico di Torino una lettura originale dell’evoluzione del mondo del lavoro in quella che era un tempo la capitale industriale e operaia del Paese, basandosi su una elaborazione inedita di dati operata da un team di sociologhe e sociologi.
Dall’analisi dei dati INPS l’unitarietà del mondo del lavoro a Torino sembra essere un dato definitivamente superato nel secondo decennio del XXI secolo. A crescere sono infatti le occupazioni a basso reddito nelle catene della logistica e della distribuzione e nei servizi alla persona e, sul versante opposto, le professioni intellettuali. In netta opposizione, il calo vertiginoso della fascia media del lavoro: i servizi a reddito più alto, gli operai industriali e i lavoratori autonomi tradizionali. Torino e il Piemonte, insomma, rappresentano in maniera decisamente accentuata (e forse anticipata, in questi termini) quella che è una tendenza nazionale.
In questo contesto, a farne le spese sono ancora una volta gli under 30 e le donne, che a parità di orario di lavoro e di inquadramento arrivano a percepire in media uno stipendio annuo inferiore di 11.500 euro, rispetto agli uomini e agli over 30.
Lo spaccato che ci offre questa ricerca può richiamare alla mente le scene di alcuni film che propongono in maniera iconica e universale questi cambiamenti che non conoscono più confini: da Sorry we missed you (Ken Loach, 2019), ambientato in Inghilterra, fino al sudcoreano Parasite (Bong Joon-ho, 2019) per limitarsi a due soli esempi, in cui la lotta di classe dei protagonisti, interpretata ormai in chiave esclusivamente individualistica o egoistica, si rivela per lo meno fallimentare frantumando peraltro tutti i valori e gli ideali degli stessi protagonisti e delle loro reti famigliari e sociali. O, ancora, l’antesignano Metropolis, Fritz Lang, 1927, dove però la divisione tra mondo “alto” e “basso” si riproduce sempre più anche nell’universo del lavoro.
Approfondendo questi dati, si profila, inoltre, uno scenario inedito in termini di rappresentanza del mondo del lavoro (o: dei lavori), che individua i termini di una nuova discussione anche sugli strumenti più idonei per la tutela della sua tutela.
Accanto ai dati, 15 interviste strutturate hanno infatti evidenziato la percezione del lavoro e delle garanzie connesse, considerate sempre più come il frutto di auto-imprenditorialità, di azione soggettiva e non più collettiva: una concezione individualistica della rivendicazione, frutto di una diffusa sensazione di solitudine e mancanza di reti di protezione collettiva.
Come è possibile interpretare e rappresentare, da parte della sinistra e in particolare, del sindacato, un mondo del lavoro così fortemente polarizzato e segmentato? Quali strumenti possono tenere insieme le tutele dei lavoratori “salvati” da quelle di coloro che sono progressivamente “sommersi”?
Qualche dato:
Il costante mutamento della struttura occupazionale (o della composizione socio-professionale del lavoro) è sempre associata ai cambiamenti del mix produttivo, delle tecnologie, dei consumi e degli assetti regolativi. Tenuto conto delle grandi trasformazioni che separano la vecchia società industriale (quella fordista per intenderci) dall’economia dei nostri giorni (crescita dei servizi, delocalizzazione e riorganizzazione della manifattura, digitalizzazione della produzione, distribuzione, vita quotidiana etc.), la parte introduttiva della ricerca ha posto in evidenza i principali mutamenti degli ultimi dieci anni, comparando le trasformazioni avvenute in Piemonte, con quelle che si sono verificate nelle altre grandi regioni del Nord e del Centro (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana)
Nel decennio che ha anticipato la crisi pandemica del 2020, infatti, è proseguito il trend di perdita della centralità dell’economia del Piemonte e dell’area torinese negli assetti produttivi del Paese, che trova un primo riscontro nell’andamento degli indicatori pro capite della ricchezza generata (Pil, Valore Aggiunto) e nella dinamica dell’occupazione: nel 2019, per ore complessivamente lavorate, per numero di occupati e, in ultimo, per tasso di occupazione il Piemonte (che non aveva mai recuperato i livelli del 2008) si collocava al di sotto delle regioni di confronto; a ciò si aggiunge, inoltre, un contributo demografico particolarmente negativo, che evidenzia un più consistente assottigliamento delle classi anagrafiche in età attiva in regione.
In questo periodo, in Piemonte ha “tenuto” l’occupazione nelle componenti a maggiore intensità tecnologica della manifattura (macchine, automotive, mezzi di trasporto, aerospazio, chimica), a fronte di un ulteriore drastico ridimensionamento nei settori “low tech” (tessile, legno, carta, ecc.), mentre la variazione nei servizi fino al 2019 aveva segno positivo (ma con una consistenza inferiore alle regioni di confronto). Proprio il confronto tra dinamica della produttività della manifattura (al di sopra delle altre regioni) e dei servizi globalmente intesi (al di sotto) pone in primo piano una questione cruciale per la struttura occupazionale e dei redditi: la “terziarizzazione” dell’economia regionale rivela una fragilità di fondo, in cui convergono bassa produttività, frammentazione organizzativa, lavoro poco retribuito. A fronte di un terziario “interno” al settore industriale(il lavoro tecnico-professionale interno alla manifattura, che nei settori high tech ormai impiega una quota “operaia” inferiore al 50 per cento) e di servizi avanzati business (IT, servizi professionali e finanziari), si è sviluppata un’ampia area di occupati a basso reddito o “marginali” nelle catene logistico-distributive, nei servizi alla persona e per la vita quotidiana e talora anche in servizi formalmente a elevata intensità di conoscenza. Non casualmente, la distanza tra i redditi medi del quinto di lavoratori con compensi inferiori e quelli del quinto con salari più elevati, in Piemonte, è più ampia che nelle altre regioni osservate.
Entro queste dinamiche si situano anche i mutamenti della struttura professionale. Nel decennio in esame, in Piemonte, sono cresciuti – sia in valore assoluto, sia per tasso di occupazione in rapporto alla popolazione di 20-69 anni – esclusivamente i raggruppamenti delle professioni intellettuali (+43.100 unità), dei tecnici e professioni a reddito inferiore(+9.800) e dei lavoratori esecutivi a basso reddito o non qualificati dell’industria e dei servizi (+15.300). Nella parte centrale della stratificazione si è viceversa osservata una contrazione dei lavoratori dei servizi a reddito più alto e impiegati (-13.200 unità) e degli operai industriali (-44.200); di particolare rilievo la contrazione (-46.600) dei lavoratori autonomi tradizionali. In Piemonte, i lavoratori indipendenti in dieci anni sono diminuiti di circa 70mila unità. L’altra considerevole tendenza del periodo è rappresentata dalla crescita degli occupati a tempo parziale, che costituiscono ormai il 19 per cento del totale dei dipendenti, ma nella componente femminile raggiunge il 32,5 per cento.
In breve, emerge un profilo evolutivo coerente con uno scenario di “polarizzazione”; distingue il Piemonte dalle regioni di confronto il carattere “asimmetrico” di questa polarizzazione, più sbilanciata sul polo delle alte professioni, cresciute in misura più consistente dei lavoratori a basso reddito dei servizi e dell’industria (una curva ad andamento differente e in qualche caso simmetrica rispetto alle regioni di confronto).
La ricerca ha affrontato anche uno degli aspetti fondanti delle diseguaglianze in tema di lavoro, quello delle retribuzioni. L’analisi di un campione di circa 30.000 dipendenti piemontesi del settore privato (fonte INPS Losai 2018) mette in evidenza la presenza di significative differenze retributive. I giovani e le donne sono tra coloro che a parità di ore di lavoro risultano maggiormente svantaggiati. Una donna mediamente riceve circa il 5.000 euro all’anno in meno (retribuzione lorda) rispetto a quella percepita in media da un uomo. Il gender gap è ancora più elevato se lo si osserva all’interno di singoli settori di attività, manufatturiere e non: ad esempio una lavoratrice delle industrie del settore chimico (comprensivo di gomma plastica, energia e tessile) riceve in media circa 9.000 euro in meno annui rispetto ai colleghi uomini impiegati nello stesso settore, e una bancaria, ne riceve in media circa 14.000 euro in meno.
Lo svantaggio retributivo è evidente anche se si osservano le distribuzioni per fascia di età, un/a giovane dipendente al di sotto dei 30 anni, riceve una retribuzione media che è circa la metà rispetto a quella riconosciuta all’intero campione. In tutti i settori presi in considerazione nell’analisi, la retribuzione oraria media lorda della popolazione under 30, è inferiore ai 9 €/h. I settori in cui tale retribuzione oraria risulta più bassa sono quelli del commercio e dei servizi, dell’edilizia e dell’agroalimentare, nei quali la retribuzione media lorda oraria si attesta appena al di sopra dei 6 euro. In generale, quelli dell’edilizia e del commercio sono i settori a maggior svantaggio retributivo, dove mediamente il numero di coloro che vi lavorano e che percepiscono un salario basso (ossia al di sotto del 60% del valore della mediana) è maggiore rispetto ad altri.
Quota di lavoratori che percepiscono un salario basso (< al 60% del valore della mediana del campione) (Fonte INPS Losai 2018).
Il progetto di ricerca ha previsto anche alcune interviste in profondità. Sono stati intervistati operai, commessi, addetti alla logistica, operatori nella cooperazione sociale, programmatori, manutentori, operatori del commercio, badanti. Una incursione nel vissuto di persone che compongono la fascia media della popolazione salariata, ma anche quella più esposta a fenomeni di sfruttamento intensivo. La percezione del lavoro e delle garanzie che devono essere associate ad esso ha fatto emergere una frattura negli stessi modelli sindacali: accanto ad una visione di sindacato che vigila sull’applicazione del contratto (quale dispositivo universalistico di tutela del lavoro) e che ricorre al conflitto come modalità di azione collettiva e di pressione, si fa strada una concezione che invece si delimita al gruppo di pari, ad una cerchia definita dalla comunità di lavoro aziendale. Trova elementi di espansione una concezione individualistica della rivendicazione (spesso alternativa al modello sindacale dell’azione collettiva), specie nelle occupazioni e nelle condizioni di lavoro caratterizzate da maggiore discontinuità occupazionale e deprivazione salariale. La parte più fragile sembra essere più permeabile all’idea che le possibilità di miglioramento o di affrancamento da una condizione di incertezza e vulnerabilità siano strettamente connesse alle risorse che il singolo è in grado di mobilitare nel mercato del lavoro. Per alcuni degli intervistati che si percepiscono come lavoratori senza una rete di protezione, diventa indispensabile fare affidamento sulle proprie forze e con il sostegno delle cerchie sociali più ristrette (reti familiari e amicali). Questa concezione si sviluppa specularmente alla percezione di un indebolimento del contratto collettivo come dispositivo di difesa e di progressione professionale. Questa tendenza (che necessita ancora un ampio lavoro di approfondimento) ci consegna una visione del lavoro come auto-imprenditorialità, dove l’eventuale espulsione del mercato del lavoro è assunto come un fattore di rischio, allineando la condizione del lavoro a quello di una micro-impresa di sé stessi. Sono temi che non solo evidenziano le strategie che le lavoratrici e i lavoratori hanno adottato per conquistare o mantenere una posizione lavorativa, ma anche gli spazi che la concezione neoliberale ha colonizzato nella percezione soggettiva del lavoro.
La ricerca mette in evidenza il forte processo di frantumazione della condizione materiale di lavoro; a questa si affianca un processo di destrutturazione degli ordini culturali tradizionali, con una oscillazione tra l’azione collettivacome prospettiva di miglioramento e di emancipazione e la scelta individualistica che si configura come una opzione contemplata nella parte più deprivata e fragile del mercato del lavoro.
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