Di Alessandro Berti
Il 9 febbraio ha preso avvio la seconda edizione del ciclo di seminari Culture politiche, quest’anno dedicato all’Europa. In vista delle elezioni del Parlamento europeo che si terranno a giugno, l’Istituto ha voluto organizzare degli incontri con l’intento di accompagnare la riflessione intorno ai temi cruciali del futuro dell’Unione Europea. Il desiderio è di indagare come le diverse culture e visioni politiche operanti all’interno delle istituzioni europee (destra radicale, neoliberismo, socialdemocrazia, ambientalismo) siano chiamate a rispondere alle sfide nazionali e internazionali, nonché al progetto stesso dell’Europa che sempre più spesso appare bloccato, in affanno.
Il primo appuntamento, dal titolo “Economia della conoscenza e modello sociale europeo, oltre il neoliberismo e l’austerità”, ha esaminato come i cambiamenti negli assetti del sistema economico europeo abbiano avuto e continuano ad aver importanti conseguenze sulla struttura dei modelli sociali nazionali e sulle politiche sociali che è necessario assumere per far fronte alle emergenti fragilità ed esigenze dei cittadini e delle cittadine.
Nell’interpretazione che ha offerto Cristiano Antonelli – docente di Economia dell’innovazione dell’Università degli Studi di Torino – nell’attuale scenario geoeconomico sono due i modelli di capitalismo che si fronteggiano a livello globale: quello “fordista-manifatturiero” e quello dell’“economia della conoscenza”. Gli studi collocano la nascita di questo scenario tra gli anni Settanta e Ottanta, quando i cambiamenti all’interno del capitalismo e degli equilibri politici internazionali hanno avviato una serie di profonde trasformazioni. È in quegli anni che nei paesi di più antica industrializzazione (l’Europa e il Nord America) l’occupazione manifatturiera e il peso dell’industria sul bilancio della produzione nazionale è drasticamente diminuito, mentre è progressivamente aumentato il peso dell’economia della conoscenza, dell’economia finanziaria e della produzione immateriale dovuta all’impiego sempre più intenso delle nuove tecnologie legate all’ICT e, successivamente, al digitale. Parallelamente, i paesi emergenti del continente asiatico – con la Cina in testa – si sono rapidamente trasformate nelle “fabbriche del mondo”. È tuttavia importante fare una precisazione: inizialmente questi paesi hanno trovato il loro modello di successo nella produzione a basso costo di prodotti progettati e distribuiti applicando la conoscenza scientifico-tecnologica precedentemente elaborata dai paesi occidentali, ma successivamente hanno investito fortemente nell’innovazione tecnologica per specializzarsi in filiere produttive strategiche e con alto valore aggiunto.
Per quanto l’economia della conoscenza abbia dimostrato di essere un ottimo volano di sviluppo per le economie deindustrializzate, è altrettanto vero che obbliga ad affrontare nuovi squilibri ed elementi critici. L’innovazione necessaria allo sviluppo dell’economia della conoscenza richiede decisioni spesso rischiose, essendo un processo incerto e dissipativo, accessibile molto spesso solo a start-up che possono far leva su ingenti capitali finanziari. Inoltre, l’occupazione che viene a generare offre buoni redditi a una porzione minoritaria della popolazione attiva, mentre una buona parte dell’occupazione si concentra nei servizi più poveri, con scarso apporto tecnologico e minor valor aggiunto. In uno scenario simile – in cui le disuguaglianze aumentano e il PIL cresce a ritmi inferiori poiché la riduzione della manifattura non è adeguatamente compensata dalle nuove economie – l’intervento pubblico diviene cruciale: le politiche industriali non possono essere del tutto abbandonate e sono sempre maggiori le pressioni per attuare ingenti trasferimenti di reddito con investimenti in protezione sociale.
I paesi membri dell’Unione Europea hanno una struttura sociale ed economica relativamente simile – se confrontati con Stati Uniti, Australia o Giappone – ma con differenze che rendono il panorama fortemente eterogeneo. Tutti hanno sistemi pensionistici, indennità di disoccupazione, congedi genitoriali, forme di reddito minimo e accesso alle cure mediche, ma le differenze nelle forme di welfare sono molte ampie. Anche la struttura economica è variegata: l’Italia e la Germania presentano ancora un tessuto industriale importante, che rappresenta una quota della produzione ben più alta degli altri stati membri. Alla luce di queste differenze, secondo Chiara Saraceno – sociologa esperta di sistema di welfare e in passato docente all’Università degli Studi di Torino – un modello sociale europeo in parte esiste e in parte no. Le peculiari storie nazionali, i differenti livelli di ricchezza e tipi di economia rendono difficile una pianificazione unitaria di un modello di sviluppo sociale. Ciò detto, nonostante in linea di principio, sulla base dei trattati, le politiche sociali siano di competenza esclusivamente nazionale, nel tempo l’Unione Europea è intervenuta sia tramite direttive (ad esempio contro le discriminazioni, in tema di congedi di cura o per quanto riguarda il salario minimo) sia tramite raccomandazioni (come nel caso degli obiettivi per lo sviluppo di servizi educativi per la prima infanzia o di una garanzia di reddito minimo per i poveri). Eppure, sia le direttive, che sono maggiormente vincolanti, sia le raccomandazioni, che hanno potere solo orientativo, si son dimostrate per il momento strumenti non efficaci nell’indirizzare le politiche nazionali verso un comune obiettivo. La loro maggiore efficacia sembra risiedere principalmente nella capacità di alimentare un dibattito all’interno dell’opinione pubblica, agendo come “spinte gentili” (nudging).
Questa scarsa incisività dell’Unione Europea riflette la sua attuale struttura. Daniele Viotti – parlamentare europeo e membro della Commissione bilancio del Parlamento europeo – sottolinea come l’UE sia indebolita dell’esiguità del suo bilancio, poco più del 1% del PIL dei paesi membri e dal fatto che gli stati membri, qualunque fosse la maggioranza politica al loro governo, sono sempre stati restii a cedere sovranità e quindi capacità di azione e di spesa. Molte voci di spesa sociale sono una prerogativa degli stati membri, un monopolio che finora è stato scalfito una volta sola, all’interno del quadro emergenziale dovuto alla pandemia da Covid-19. Inoltre, è importante ricordare come la spesa sociale dell’Unione è sempre stata fortemente condizionata dalla priorità data alla difesa dell’euro e al contenimento del debito pubblico.
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