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di Gianguido Passoni

Vi è più di una ragione per celebrare i cinquant’anni dell’Istituto Gramsci di Torino, ora Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci: tra queste certamente la sua longevità, straordinaria per un istituto culturale, il posizionamento all’interno del Polo del ‘900, la celebrazione di un percorso di dieci lustri trascorsi tra ricerca, approfondimento e studio del pensiero politico di Antonio Gramsci e della società del novecento, e in particolare del movimento operaio e dei principali fatti e personaggi del secolo breve.

A mio avviso, tuttavia, le vere ragioni risiedono anche altrove. L’Istituto ha attraversato, autorevolmente, un pezzo importante della storia di questa città, Torino, e di questo Paese. Lo ha fatto transitando in mezzo a stravolgimenti e cambiamenti epocali che, da soli, hanno provocato mutazioni economiche e sociali, politiche e culturali come mai prima era accaduto: la caduta dell’Urss e la crisi del Comunismo europeo, il ritorno della guerra in Europa, l’affermazione del capitalismo, del neo-liberismo e dell’economia di mercato senza contraltari, l’individualismo spinto e l’abbandono del modello fordista con la progressiva terziarizzazione della società e l’aumento della vulnerabilità popolare, per citarne alcune. Senza un forte quadro valoriale e politico-culturale, quanto citato sarebbe bastato a spazzare via l’Istituto e forse anche il suo bagaglio fatto di documentazione, archivi, pubblicazioni e materiale audio-video unici e fondamentali. Invece, senza alcun tentennamento, nuovi gruppi dirigenti – umilmente, potremmo dire, “nani sulle spalle di giganti” – hanno orientato e riprogrammato le attività nel giusto equilibrio tra bagaglio gramsciano e contesto socio-economico e culturale attuale.

In questa prospettiva, compiere cinquant’anni significa accettare la sfida del presente, con la solidità del passato, ma con la consapevolezza che solo una meticolosa attività di ricerca e approfondimento, preceduta da una costante attività di analisi e comprensione delle dinamiche dell’oggi, può dare risposte ai tanti dubbi, alle tante incertezze, e magari ispirare chi, nella nostra involuta democrazia, deve saper rilanciare un progetto di progresso.

In questi cinquant’anni sono successe cose enormi. Ritornando al mondo economico e sociale: dopo lo sviluppo eccezionale seguito ai conflitti mondiali, la crisi del comunismo, seguita più recentemente dalla crisi delle socialdemocrazie, ha aperto la strada a forme di affermazione economica liberista aggressive e sempre meno regolate. Se trent’anni fa si parlava di globalizzazione, oggi potremmo parlare della tendenza alla creazione di un solo mercato mondiale, senza tuttavia aver ancora compreso quali autorità nazionali o sovranazionali siano in grado di regolarne il funzionamento. Eppure, le conseguenze in termini di disuguaglianze, nuovi flussi migratori, nuove guerre, anche europee, e polarizzazione tra nazioni emergenti e vecchio mondo, si stanno manifestando violentemente. Anche localmente i meccanismi di formazione della ricchezza e della sua redistribuzione sono in profonda crisi. Il mondo fordista è stato spazzato via anche nel vecchio continente e per ora le istituzioni europee faticano a trovare un equilibrio così come avvenne nel secondo dopoguerra. Sono in atto veloci e continui cambiamenti e si fa fatica a individuare risposte progressiste e di sinistra, mentre nuove destre europee guadagnano terreno proprio nell’opporsi a queste tendenze, senza nascondere la propria natura reazionaria e talvolta fascista.

Nella nostra città la crisi post-fordista ha stravolto, seppur in un lungo lasso temporale, il tessuto sociale. È naturale che le città più industriali siano anche quelle che pagano un prezzo più alto di fronte a scenari così mutevoli. Eppure, Torino non ha perso il suo fermento innovativo, in campo culturale e sociale, cercando di convertirsi in una economia locale mista, senza abbandonare del tutto la sua vocazione produttiva, ma affiancando terziario e istruzione universitaria. Se questa nuova città degli ottocentomila abitanti tornerà a crescere, lo si vedrà, ma intanto i temi di sempre, centro e periferie, nuove classi sociali che vivono di lavoro, talvolta povero, o di pensioni, devono restare al centro della ricerca e della correlata attività di progettazione culturale: nuovi progetti, sempre più rivolti ai giovani, con conseguente valutazione dell’impatto sociale generato; nuove attività, nuove strade da percorrere, nuovi obiettivi e nuovi strumenti per perseguirli.

Il nostro Paese, più di altri in Europa, è facilmente condizionabile dai venti che soffiano nel mondo e, in particolare, sugli Stati Uniti e la vecchia Europa. L’idea di un cambiamento senza valori, ma quale pura reazione istintiva al presente, è stata vista da molti nel recente passato come la scorciatoia per affrontare i problemi, senza fare i conti con la fragilità di tale impostazione e dimenticando la lezione gramsciana: nessun cambiamento senza un progetto, una istruzione, una organizzazione può avere successo; valeva un secolo fa e vale ancora di più nell’oggi.

Tarda, quindi, a mostrarsi una nuova visione complessiva della società, dell’economia e dello sviluppo, mentre i tempi correnti ci presentano continue accelerazioni: le sfide ambientali, da coniugare con lo sviluppo economico di quella parte di mondo che fino a ieri dello sviluppo altrui era solo testimone o vittima, le sfide sui diritti civili (il XX secolo è stato testimone di cambiamenti significativi nel campo dei diritti civili, contro la segregazione razziale, per la promozione della non violenza) e quelle dell’innovazione tecnologica, dal web all’intelligenza artificiale. Quest’ultima meriterà riflessioni specifiche: l’intelligenza artificiale può portare ad una migliore assistenza sanitaria, automobili e altri sistemi di trasporto più sicuri ed anche prodotti e servizi su misura, più economici e più resistenti. Può anche facilitare l’accesso all’informazione, all’istruzione e alla formazione, ma i risultati prodotti dall’IA dipendono da come viene progettata e da quali dati vengono immessi. Questo processo può essere influenzato intenzionalmente o meno. L’uso dell’intelligenza artificiale potrebbe portare anche alla scomparsa di molti posti di lavoro. Tema fondamentale è che ci sia una forza lavoro qualificata e con adeguati diritti in un contesto sociale di progresso complessivo.

Le sfide per il futuro dell’Istituto Gramsci sono tante e la nostra ambizione è di saperle cogliere, di saper analizzare e comprendere il presente, di preservare e valorizzare la nostra cultura gramsciana così come quella del patrimonio della sinistra e della classe operaia di cui siamo custodi. Ma soprattutto di saper utilizzare “l’unità di teoria e di pratica” che già utilizzò Gramsci nel suo tempo per delineare, oggi, una nuova serie di concetti scientifici in grado di interpretare il mondo a noi contemporaneo, lavorando insieme a chi, organizzazione di massa, stakeholder, politica, condivide con noi una visione di progresso. Percorrere nuove strade nel presente, intercettare nuovi pubblici, saper diffondere e spiegare nuovi contenuti sarà la sfida del prossimo decennio.

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